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Tra cravatte e corsetti, i “fuck me(n)” di Liv Ferracchiati

ph Luna Loiero /FerMentis

Teatro

Tra cravatte e corsetti, i “fuck me(n)” di Liv Ferracchiati

Indossano scarpe con le punte, tutù, gonne a balze e corsetti fucsia che in realtà si abbinano incredibilmente bene con le camicie e cravatte scure che portano sotto. Sono i tre protagonisti di Fuck me(n), la produzione dei trentini di Evoè!Teatro andata in scena nel fine settimana al Teatro Comunale di Badolato, per la rassegna SPAc della residenza MigraMenti di Teatro del Carro, e al Tip di Lamezia Terme, per Ricrii di Scenari Visibili.

Con la regia e l’adattamento dei testi di Liv Ferracchiati – che abbiamo avuto modo di intervistare -, Fuck me(n) presenta tre prototipi di maschio, tossico. Sono uno sportivo (Emanuele Cerra) che vorrebbe crescere il proprio figlio più incline alla violenza, un professore universitario (Giovanni Battaglia) dedito al collezionismo di studentesse pseudo consenzienti, un padre (Paolo Grossi) che vuole essere solo il compagno della moglie, individuando nel figlio un antagonista delle sue attenzioni.

Non è un caso che lo spettacolo si apra con la sigla del cartone “Braccio di ferro”, sebbene si tratti di una sua versione distorta, che si inceppa come i movimenti degli attori sul palco. Del resto Popeye dovrebbe rappresentare il maschio ideale: marinaio – con una donna in ogni porto? -, forte, leale e sempre pronto a difendere i più deboli, dolcissimo coi bambini, cattivo con i cattivi, innamorato della sua donna. Un mostro, praticamente, che si ciba solo di spinaci. Ce lo hanno sempre passato come un esempio. E ci abbiamo creduto. Ma qualcosa non funziona più, Ferracchiati lo afferma fin dai primi istanti di questo Fuck me(n), quando chiarisce molto bene dove va a puntare il suo lavoro: questa idea di maschio è solo un’idea e neanche tanto geniale.

Ai tre attori sul palco completamente spoglio, spetta raccontare le loro storie: sono tronfi, codardi – se lo dicono pure -, pieni di sé, autocompiaciuti. Il pugile, ossessionato dalla forma fisica – Cerra si è addirittura cimentato a sollevarsi sulle punte delle sue scarpe da ballerina -, non fa che allenare il figlio, ricordandogli ogni volta che può che deve imparare a difendersi – da chi, da cosa, poi? -, sciorinando luoghi comuni su luoghi comuni di becero razzismo. Il padre che dimentica, forse, il figlio di cui è geloso in auto, sotto il sole cocente – Grossi in alcuni momenti è finanche tenero, se non fosse per il resto della sua storia -, pretende attenzioni da una madre distrutta dal dolore, come figlio della sua stessa compagna. Il professore spavaldo – un Battaglia eccezionalmente odioso in parigine rosa -, parla delle sue “prede” come fosse un macellaio che illustra i pezzi esposti sul bancone, additandole di esserci state, salvo poi fare un vorticoso passo indietro quando ad essere a rischio è la sua carriera universitaria.

Sono i protagonisti dei tre intensi monologhi di “Fuck me(n). Studi sull’evoluzione del genere maschile” scritti per il palcoscenico da Massimo Sgorbani (il padre fanatico della forza fisica) – recentemente scomparso, ricordato a fine spettacolo da Battaglia -, Roberto Traverso (quello geloso del proprio figlio), Giampaolo Spinato (l’accademico), che nella sua versione Ferracchiati mette insieme senza mai realmente intersecarli tra loro: i personaggi sembrano interagire, ma di fatto questo non avviene mai. Sono i lati di una stessa medaglia. Sbagliata.

Sono disgustosi in egual misura – no, in realtà il professore non lo batte nessuno -, questi cosiddetti virili: il disturbo nello spettatore è sapientemente provocato, a giuste dosi, man mano che i tre si fanno cadere di dosso i vestiti, uno alla volta. Letteralmente si spogliano di ogni sovrastruttura, liberando il proprio essere, fino a restare completamente nudi, rivolti verso la luce, forse l’alba di un nuovo maschio. Gli indumenti, così come ogni orpello, sono di lato a terra, inutili. Le cravatte come le scarpette con le punte e i tacchi: sono accantonati come il simbolo che rappresentano, nulla.

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