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“Perle ai porci” di Mion e Alfano, il diario di Emilio Nigro

Emilio Nigro
ph Antonio Pittelli e Luna Loiero/FerMentis

MigraMenti/residenze

“Perle ai porci” di Mion e Alfano, il diario di Emilio Nigro

Prosegue la collaborazione con Ateatro che ci accompagna nel progetto di residenze di MigraMenti al Teatro Comunale di Badolato (Cz). Questa volta è toccato a Emilio Nigro raccontarci la nuova tappa, quella con protagonisti Athos Mion e Salvatore Alfano che hanno presentato il lavoro “Perle ai porci“,  con la consueta restituzione pubblica.

In un mondo dove il capitalismo ha trasformato la dignità personale in valore di scambio

di Emilio Nigro*

 

Il teatro toglie la paura dell’altro. E realizza la sua funzione sociale quanto più si fa organo fonetico di una comunità. Ne dice, anzi, ne svela, i meccanismi relazionali ed interiori; si fa cassa di risonanza nell’attimo unico e irripetibile di un corpo a corpo, un contatto stretto, vivido. E scioglie grumi, libera l’anima, insorge dubbi, crea domande, lasciando libertà d’arbitrio, di soluzione. Ricrea l’umano in sembianza altre, guardando la scena, quali non riusciremmo a personificare realmente (J. Jenet).

È nell’ambito del progetto “Perle ai porci”, che si è svolta la residenza artistica a Badolato a cura del Teatro del Carro di Anna Maria De Luca e Luca Michienzi, con protagonisti i giovani artisti Athos Mion e Salvatore Alfano impegnati nel processo creativo e di produzione (e restituzione al pubblico). Nel profondo Sud, in Calabria, terra amara e dolcissima, in un teatro posto su un adagiato colle attorniato da ulivi e aria buona, gente serena e all’antica, raccolta nell’identificarsi speculare del rito del palcoscenico. E mutano gli sguardi, le proiezioni, gli atteggiamenti. Sembra – artisti, operatori, spettatori – essere coinvolti in una comune familiarità d’intenti, mutuati dal territorio e dal luogo teatrale; una dimensione politica di democrazia partecipata, un atto aderente a ciò che gli antichi greci definivano “phenomenon”, qualcosa di conoscibile attraverso i sensi, la strada per la vera sapienza.

Due settimane di permanenza, una ricerca antropologica, estetica, sociale tradotta in materiale di azione scenica, sapientemente orchestrata dalla grafia semiotica, autoriale, non convenzionale, di un regista giovanissimo ma di formazione accademica (Civica scuola Paolo Grassi di Milano) Athos Mion e rappresentata da un altrettanto giovane attore, calabrese (di Amantea), di enorme talento e capacità istrionica, Salvatore Alfano (Civica Scuola Paolo Grassi, premio Hystrio alla vocazione 2019).

Un tema ab origine, lo sfruttamento. Dell’uomo su uomo, essere animale senziente e inscenato per metafora del divenire animale: l’allegoria a trasmutare concetti e figure, assottigliare percezioni e rendere l’approccio intellegibile. Identificarsi per terzi. Sub-liminare il reale e emancipare lo strumento artistico, evocativo, evasivo.

Materiale drammaturgico frammentario, testi composti e scomposti dai giovani artisti assorbendo dal mito (l’odissea rivista dalla singolare creatività), dalla narrativa distopica sociologica (Orwell de “La fattoria degli animali”), a far fluire un’opera volutamente in quadri (scene compiute autonomamente e non necessariamente consequenziali) in cui lo spettatore è sì chiamato ad una operazione di codificazione e di assemblaggio, ma facilitato dall’armonia fluida (in climax progressivo) della costruzione, mediato dai suggerimenti dei significanti e persuaso dall’immaginifico pop, a diminuire distanze di comprensione.

Lo spazio scenico completamente privo di quinte, in cui l’azione è adattata al luogo, lo svelamento per non lasciare irrealizzato nessun momento, distrarre lo spettatore libero di rivolgere sguardo e attenzione verso segni grafici, oggetti, suggerimenti drammatici e interagire a proprio gusto. Da terzo o da partecipante, in un gioco illusorio di accompagnamento e distacco, facendo labile e dichiarato il confine tra realtà e finzione, tra persona e personaggio, tra attore e spettatore.

Un’opera immaginata precedentemente e costruita, ridefinita artigianalmente nell’ambito della residenza, sorbendo dagli umori raccolti, dalla protezione dell’accoglienza della gente del luogo, contaminata dai vissuti.

Una mezza dozzina di quadri, per cui si visualizzano maniere assunte a canoni e disobbedite in modo autoriale. Dimestichezza della conoscenza acquisita a permettere il “tradimento”, l’innovazione. Perché non ci si improvvisa artisti. Non è sufficiente la vocazione. Alla predisposizione naturale, fondamentale l’associare pratica costante, studio, sudore. Perché la naturale fascinazione spettacolare assuma la consistenza e la serietà del mestiere. Un mestiere a cui dedicarsi con il sacrosanto godimento, affinché si possa restituire leggerezza, enfasi, oltre che senso.

Entusiasmo, il termine più adatto a definire la partecipazione della prima prova aperta, il 26 novembre, alla comunità. Una relazione intensa compiuta nel ricrearsi degli spettatori. Suscitante partecipazione vivace, sciogliendo i dubbi registici di comprensione e intellegibilità in una risposta interpretativa netta e coerente alle intenzioni. Nel dibattito di post rappresentazione, la testimonianza dell’approdo felice nelle parole restituite dai partecipanti. Nell’esprimere l’apprendimento veicolato dalle figure, l’immedesimazione ai personaggi, l’identificazione nelle proprie attitudini o quotidianità. L’arte che figura la vita, in costruzioni e azioni non sovrapposte o identiche, piuttosto nell’imitazione verosimile codificata nel linguaggio spettacolare. Conseguenza della disponibilità all’ascolto dei giovani e meravigliosi artisti. Dediti con umiltà, apprensione, alla produzione creativa, ma disponibili al mettersi in discussione, accettare suggerimenti, fidarsi degli occhi esterni. Strabordante la potenza attoriale di Alfano, un futuro (e probabilmente già contemporaneo) mattatore delle scene. Capace di cimentarsi in qualunque prova sia richiesta, dalla presenza scenica incredibile, coniugando perfezione fisica e gestuale alle abbondanti capacità attoriali/dialettiche. E allo stesso tempo valente nell’impronta autoriale. Altrettanto strabordante l’estro creativo e “direttivo” del regista Athos Mion, astro nascente del teatro italiano. Un essere delicato e pensante, non autoreferenziale, dallo stile inconfondibile pur attingendo al canone; chirurgico costruttore ma estroso creativo “disobbediente” nella ricerca di una propria mano. Notevole la capacità di estraniarsi nella costruzione immaginifica e strutturale e carpire le percezioni umorali degli astanti; guidare e convogliare le energie creative autoriali dell’attore in scena, indicare pochi e sufficienti punti di riferimento e armonizzare gli elementi di creazione scenica.

«Perle ai porci è uno spettacolo a quadri  – le parole del giovane regista –  che pone al centro della sua ricerca il tema dello sfruttamento. Le scene, come perle di una collana, sono auto-concluse e scollegate tra di loro e in ognuna si parla di una forma di sfruttamento nella società. Il maiale diventa metafora di questo fenomeno, proprio perché si tratta di uno tra gli animali da macello più diffusi e per l’ampia gamma di sottoprodotti derivati. In questo lavoro si condensano i campi semantici più disparati che oggi esistono attorno alla figura del maiale: simbolo del basso corporeo, dell’osceno e del disgusto, così come simbolo dello sfruttamento alimentare, della politica corrotta, degli impulsi sessuali, della blasfemia, dell’abbondanza.

Lo sfruttamento lavorativo viene raccontato da un compagno di Ulisse trasformato in maiale dalla maga Circe. Una giovane sex worker sfrutta la sua bellezza e fa la maiala per un cliente particolarmente esigente. Una casalinga, attraverso il musical, richiede che il suo lavoro venga giustamente riconosciuto e retribuito. Queste sono solo alcune delle perle della collana, mentre a fare da filo c’è il conflitto trasversale del performer il quale è disposto a sfruttare tutto se stesso per piacere al pubblico. Rompendo la quarta parete comincia un gioco/dibattito con gli spettatori che cerca di di rompere il meccanismo di sfruttamento ed essere onesto con se stesso e con il pubblico. Tuttavia, più ci prova più da fondo alle sue qualità attoriali e autoriali: il piacere al pubblico e l’essere riconosciuto hanno il sopravvento anche sulle sue migliori intenzioni. Forse perché “il capitalismo ha trasformato la dignità personale in valore di scambio”».

E sulla regia, aggiunge Athos Mion: «In un testo che nasce sulla scena è difficile individuare una separazione netta tra idee formali e contenutistiche. Come del maiale, noi non abbiamo buttato via niente. Ogni scena viene recitata diversi con linguaggi teatrali, attraversando il teatro performativo e di parola, il teatro dialettale e il musical, le maschere di tradizione e quelle fetish, la danza, i cartelli, gli stacchetti e i coriandoli.

Lo spazio scenico vuole essere scarno, crudo, messo a nudo, innestato nello spazio reale che ospita lo spettacolo: pochi elementi scenici, spesso reperibili dallo spazio ospitante, alcuni costumi eccentrici e una manciata di maschere da maiale.Il rapporto con il pubblico è la chiave di lettura di tutto il progetto. Il pubblico per una prima parte del lavoro codifica un rapporto con la scena come spettatore. Lo stesso è sollecitato al lavoro di codifica dei continui cambi di registri linguistici, aiutato però dai passaggi logici da una scena all’altra, mentre dalla rottura della quarta parete non percepisce più la sua seduta come comoda in quanto sente di essere coinvolto in maniera diretta nell’andamento dello spettacolo. Ogni atto performativo dell’attore è in sé un tentativo di onestà per combattere lo sfruttamento di se stesso così come un gesto disonesto per piacere al pubblico. Il performer per tutto il tempo giocherà sul sottile crinale tra vero e finto. Su questo confine il pubblico sa che può capitare di tutto e che si sta ancora giocando la partita tra scena e platea.

Una domanda rimane ancora aperta: Questo spettacolo è una perla per un pubblico di porci? O le perle sono gli sguardi, gli applausi, le attenzioni del pubblico che noi porci artisti aneliamo più di ogni cosa?».

La tradizione scrupolosamente e magnificamente portata avanti da quarant’anni dal Teatro del Carro, per cui si rinfocola memoria del compianto maestro Pino Michienzi, prodromica allo scorrere endemico di nuova linfa, nuovo sangue per correnti circolazioni. Perché il teatro riviva uguale a se stesso e innovato dalle avanguardie. Rendendo possibile in terra di Calabria, il contrasto all’emarginazione culturale e economica per l’arma bianca del teatro, dell’arte. Scuotendo forte coscienze assoggettate, più che assopite.

* Emilio Nigro è poeta, autore e critico di teatro. Firma di Hystrio da oltre dieci anni, collabora e ha collaborato con quotidiani e riviste, scritto e messo in scena spettacoli.

 

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