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“Vita di San Genesio”, tre frammenti su Ctrl+Alt+Canc

San genesio
ph Antonio Pittelli e Luna Loiero/FerMentis

MigraMenti/residenze

“Vita di San Genesio”, tre frammenti su Ctrl+Alt+Canc

Ultima tappa del viaggio sulle residenze ospitate nel 2023 dal progetto MigraMenti al Teatro Comunale di Badolato (Cz). Dopo i resoconti e le riflessioni su “Itinerario della mente verso Thomas Bernhardt” di Elvira Scorza, a firma di Clara Varano, su “Pay per view” di Alessandro Businaro e Stefano Fortin a cura di Mimma Gallina, su “My ever changing string” di Ilenia Romano, firmato dalla nostra Carmen Loiacono, “Perle ai porci” di Athos Mion a cura di Emilio Nigro, adesso tocca ad Alessandro Toppi e ai suoi appunti su “Vita di San Genesio” della compagnia Ctrl+Alt+Canc. Potete trovare il suo resoconto anche su Ateatro, che ci ha accompagnati in questo straordinario viaggio tra le nuove drammaturgie e risorse, anche belle scoperte, che le giovani leve del teatro e della danza italiani continuano a riservarci. 

Ricordiamo infine che è ancora possibile partecipare al bando per le residenze dell’annualità 2024 (la trovate qui)

 

di Alessandro Toppi*

UNO

Al centro del palco c’è una tavola di legno. A sinistra tre sedie di ferro nero che hanno l’imbottitura di tela verde mentre a destra è stato piazzato un leggio su cui sta un microfono. Due fari in proscenio, sul fondo tre neon che ricordano la parte centro-superiore di una croce. Attorno giacciono le cose del teatro quand’è in prova: una cassa, quattro corde marroni, una scopa adagiata alla parete, una scala di metallo. I fogli di un copione, una bottiglia d’acqua piena per tre/quarti e cappotti, cappelli, sciarpe (siamo a dicembre, fa freddo, di pomeriggio c’è un’umidità che sembra produrre una sottile patina nebbiosa) su una seduta della platea. Che ha 196 posti, dovuti a 49 blocchi di quattro poltrone l’uno che formano quattro settori. La cabina regia sul fondo della sala, davanti all’ingresso ed al foyer; il tetto altissimo; i condizionatori che, per non sentire il gelo, buttano aria calda: il display dice 30 gradi.
Nel golfo mistico l’autore/regista (Alessandro Paschitto) e gli interpreti (Raimonda Maraviglia, Francesco Roccasecca, Manuel Severino). Compagnia Ctrl+Alt+Canc. In residenza al Comunale di Badolato, diretto dal Teatro del Carro. Osservo per due giorni. Siedo a mezza sala, afferro il quaderno, spio. Farfugliano, comprendo a sprazzi.

«Forse dovremmo cambiare i nomi alle scene.»
«Potremmo usare la musica.»
«Qui c’è un vuoto?»
«Non mi ritrovo.»
«Ci sono momenti che si somigliano.»
«Tu che ne pensi?»
«O c’è il testo che mi aiuta o mi perdo.»
«Il primo segno supera il secondo.»
«Perché non cambiamo l’azione?»

Ogni tanto affiora un dettaglio tecnico detto in modo colloquiale – una pausa troppo lunga diventa «un buco nero», il leggio si trasforma in «questo coso», un microfono che non funziona come dovrebbe è «stronzo» – ogni tanto dal loro dialogo arriva un frammento verbale che rimanda alla chiesa, o alla messa, o comunque a una funzione ecclesiastica: ostia, il Signore, Padre Nostro e prete, altare, chierichetto.

«O recitiamo la preghiera o non la facciamo proprio», dice Severino.
«Potresti farti il segno della croce», propone Paschitto.
«In che modo possiamo rendere la vestizione?», domanda Maraviglia.

Li osservo e mi tornano in mente due libri. Il primo per contrasto, il secondo per aderenza. Per contrasto certe pagine di Per un teatro umano in cui Giorgio Strehler parla del regista come l’espulso dal coro degli attori – pur in presenza, sia chiaro, di una dialettica. La distinzione qui non c’è, o sfuma fino a farsi labile quanto il segno leggero di una matita. Certo, Paschitto in Vita di San Genesio sta fuori e abita soprattutto il margine, l’esterno, la parte bassa della sala – il corpo seduto in poltrona, la schiena piegata, le braccia poggiate sullo schienale davanti, la testa sui gomiti intrecciati – eppure non c’è stacco o alterità: i quattro sono un organismo. Agiscono cioè come un sistema che si sostiene nella relazione e si compensa per reciprocità. Così, per esempio, è Raimonda Maraviglia a proporre una micro-soluzione: «Lui (Francesco Roccasecca) potrebbe fare il gesto e poi, dopo, dire la frase». Provano, funziona.
E il secondo frammento? Anatolij Vasil’ev, A un unico lettore, pagina 331:

«Ho capito che nel teatro non si agisce correttamente quando ci si limita a scegliere un’opera, a distribuire le parti, ad allestire lo spettacolo. Bisogna prendere i temi e ideare una gran quantità di lavori assolutamente inutili e cercare, nel materiale che esce dalle prove, la variante unica possibile della futura rappresentazione. E così, quando gli uomini di teatro impareranno a non risparmiare sul tempo, a non dolersi del tempo che si perde, solo allora sarà possibile sperare che sulla scena appaiano cose vive. Se non faremo così, avremo solo filosofia ingessata in forme ingessate».

Alessandro, Francesco, Manuel, Raimonda hanno un testo, un tema, più tracce e idee che adesso maturano per mezzo dell’errore, del dubbio, del dissidio quando serve e della perdita di tempo. I tre modi diversi (nessuno buono) con cui una giacca viene piegata, portata su mani che fanno da vassoio e offerta come si trattasse di una stola. Un corpo posto frontale, poi di spalle, di nuovo frontale, di nuovo di spalle ma con la testa che ruota verso la platea quando viene pronunciata la battuta «Non mi giudicate».

«L’immagine è efficace ma come entra in relazione con il resto?», chiede Paschitto.
«Così si mangia il testo», sostiene Severino.
«Ho la sensazione che le parole diventino come un commento aggiunto a un fumetto», dice Rossasecca.

La cancellazione (necessaria) di alcune frasi, le relazioni scovate e scartate in un’improvvisazione e questa discesa in platea per interagire con il pubblico quasi toccandolo che «non mi torna, non funziona»: «devo capire il senso di ciò che faccio», dice Roccasecca.
I dodici minuti (li misuro al cellulare) in cui discutono di un’espressione («Il cuore dell’uomo si è fatto duro come la pietra»); le perplessità che hanno sull’inserimento di certi effetti (una musica, un suono, un eco, un cambio d’amplificazione, la voce che s’aggrava nel microfono); la mattina impiegata per rifinire il passaggio in cui Severino dovrà interpretare tre figure in alternanza: come marco il passaggio dall’una all’altra? Si comprende chi sono? Forzo un segno, divento didascalico, esteriorizzo o lascio che s’intuisca solamente? Andrò via senza che abbiano trovato la soluzione. «Facciamo una filata, ma interrompiamola se necessario».
Sta qui, penso, la possibilità irrinunciabile di accumulare tentativi e fallimenti, sta qui il privilegio necessario dello spreco. Costituiscono – per citare Attilio Scarpellini – i fondamenti del concetto stesso di residenza quando «si propone come un ethos» ovvero «come un modo diverso di abitare l’atto artistico, permettendogli di aprire attorno a sé il tempo e lo spazio della propria singolarità». È questo, continua Scarpellini, che fa della residenza «un’interruzione e un’inversione della velocità dei flussi culturali dominanti: una tregua nel tempo che lo rende qualitativamente abitabile, in un luogo, sotto il segno dell’arte».
Il sistema – i premi con scadenza annuale, la pratica dei bandi consumati in fretta, l’ammasso bulimico dei festival, i cartelloni usa e getta, le 21 giornate di prova, il debutto e la morte immediata dello spettacolo – non accenna a rallentare? Qui si gode di una cronometria diversa, che sembra avere (e dare) uno spessore.

DUE

In un capitolo di Peter Brook intitolato Le frasi radianti Georges Banu scrive che

«non sempre le confessioni di un artista si trovano nelle dichiarazioni pubbliche o nelle professioni di fede, ma traversano un dialogo con la rapidità di una lucertola, si formulano in una riserva espressa durante l’intervallo tra due atti o sorgono all’angolo di una strada. L’intero pensiero si concentra in una frase che può sfuggire o essere afferrata da quello che Grotowski chiama “il testimone ladro”».

Sono parole che vengono dal privilegio della comunicazione diretta, senza scopo. Di cui una residenza è piena. I dialoghi fatti in pausa, tra una boccata d’ossigeno all’esterno e un sorso d’acqua; una stilettata detta come un inciso o una parentesi, nel mezzo di un discorso in cui si parla di tutt’altro; un furto compiuto sottraendo un passaggio verbale al suo contesto: magari a una discussione stretta, interna, che non dovrei sentire perché appartiene alla compagnia. C’è un momento, per esempio, che adesso considero prezioso.
I quattro stanno di lato, sulla soglia tra esterno e interno della sala – qualcuno fuma, qualcuno si protegge dal freddo incrociando le braccia al petto – e parlano ponendo in confronto le proprie esigenze creative e personali. Il disegno registico-autoriale e la mancanza d’appigli per l’attore, «la chiarezza, che prima o poi verrà – adesso non importa» e questo bisogno invece «di comprendere perché faccio ciò che faccio»: altrimenti «lo eseguo», per carità, ma come si risponde a un compito o alla richiesta di un esercizio fisico. C’è qui, mi pare, una concezione ribadita del proprio mestiere, e il modo in cui si cerca di concretizzarlo. Ma è anche una questione d’aderenza: non sono uno scritturato né partecipo per contratto o per denaro: ho scelto di stare qui, voglio dunque che il progetto m’appartenga e che sia anche mio visceralmente, fino in fondo. Devo perciò capirlo.
Alcune volte l’informalità colloquiale s’avvantaggia della stanchezza – gli scambi fatti stando distesi, più che seduti, su una poltrona (gli spettacoli che hai visto, che libri leggi, quali autrici o registi segui) – in altre invece è un puro accidente: la metto subito sul piano under 35, incontrandolo al bar, ma Paschitto mi smonta l’idea (semplice) e l’incasellamento (ordinario, tipico, forzato): «Non penso in termini di appartenenza generazionale». È un ribadimento.
Nell’approfondimento della storia e della poetica della compagnia scritto da Alice Strazzi nel numero più recente de La Falena, Paschitto dice infatti che «il concetto di appartenenza a un gruppo è relativo all’età adulta» e che «in questo sistema di perenne infantilizzazione artistica è difficile da sviluppare»: «gli incontri sono sporadici, casuali, e di conseguenza le visioni distanti, incompatibili». La logica dominante del premio e la perdita di un orizzonte comune; l’induzione alla concorrenza (non di rado in cambio delle briciole) e la difficoltà di riconoscersi, per differenze e affinità. La stessa Alice Strazzi, con Andrea Malosio, approfondisce la questione in Ritratto della Quiet-Generation, intervento d’apertura di A cercare il cielo. Una raccolta per i dieci anni di Direction Under 30. Cita «la perdita di un senso d’appartenenza a una comunità ben individuabile», si rifà allo psicologo Ennio Ripamonti (il nomadismo aggregativo, la polarizzazione delle minoranze intense) poi scrive di artisti costretti a «un’individualità di fondo»:

«Ognuno si costruisce un percorso, con proprie peculiari esperienze, competenze e professionalità e un pizzico di performatività competitiva; insieme si raggiunge un obiettivo, ma sempre meno si costruisce un organismo corale».

Il gruppo come cellula salvifica, calda, ristretta (resistente fino a quando?) in tempi di disgregazione capitalistica (si salvi chi può): anche in arte, anche in teatro.

C’è poi in residenza l’altra informalità, data dalla presenza del pubblico quand’è prevista l’apertura. «Ciò che vi mostriamo non è uno spettacolo, ma una prova. Che potremmo anche interrompere, volendo. Insomma: ci fermeremo, ripartiremo, forse ripeteremo una scena o salteremo interi brani», avverte Paschitto contestualizzando la visione. Durante m’interessa la reazione del pubblico, rispetto a un lavoro – Vita di San Genesio – che, come i precedenti della compagnia, sembra in cerca (anche) della forma-sostanza da dare alla relazione tra attori e spettatori. L’attraversamento della sala, l’uso dei corridoi, lo stare nel golfo mistico; le formule rituali e la voce salmodiante, la reiterazione di un gesto, il canto, la richiesta di un’offerta, il coinvolgimento diretto, la condivisione atea di un testo sacro: «Padre Nostro che sei nei cieli…». Prega una signora anziana, prega il marito che sta accanto a lei. Con quanta adesione, tra il rispetto di una formula e il suo evidente tradimento?
Se ne parla poi, a lungo. La messa, la Chiesa, la sua importanza e il suo degrado in un discorso che mette assieme Dio e i figli, la politica e il pane, l’ipocrisia e il peccato, il gioco e il teatro. Qui la situazione è ribaltata. A essere importanti, più che le parole usate dalla compagnia per spiegare ciò che sta compiendo, sono quelle adoperate da chi sta in sala: permettono il ri-orientamento e la messa in discussione di ciò che si considerava incerto o già acquisito.
«Non si capisce la mia azione.»
«Ci tocca riflettere.»
«Mi sa che dobbiamo tornare a lavorarci
E infine a tavola, la sera, con i discorsi che si dilatano diventando amplissimi. Il sistema teatrale e le disparità territoriali, Roma e Napoli, il Premio Ubu e la critica, Michele Monetta e Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, i festival che funzionano e quelli che pongono gli artisti in condizioni vergognose («Nessuno lo dice, nessuno ne sa niente») e Caryl Churchill e Nando Paone, Peter Handke e Vincenzo Salemme, Martin Crimp e Carlo Buccirosso. Stanno assieme alle digressioni sul villaggio costruito dai danesi a Badolato e sui posti in cui andare al mare, ai nomi di Vito Teti e Piero Pelù, al vino e a una pizza con la ‘nduja.
Fanno scambio, mescolanza. Deregolamentata, confusa, non necessaria. Viva.

TRE

Fondazione Fitzcarraldo ha prodotto e diffuso un primo Monitoraggio delle Residenze Artistiche. Prendo in esame (in attesa dell’analisi della triennalità post-pandemica) il 2019, ovvero l’ultimo anno prima del Covid. Ci sono i volumi di attività dei Centri di Residenza (3.217 giornate, 2014 progetti, 315.000 euro di media) e delle Residenze per Artisti nei Territori (3.160 giornate, 215 progetti, 69.000 euro di media), le collaborazioni con altri soggetti della filiera teatrale (il vero tarlo: non c’è relazione strutturata tra le residenze e gli altri blocchi del sistema), l’assetto gestionale ed economico, i criteri di spesa, la fragilità contrattuale (solo il 22% è a tempo indeterminato), gli ambiti di attività: nel 2019 il 64% delle residenze ha per oggetto un processo multidisciplinare, il 18% riguarda la prosa, il 16% ospita la danza. Poi due aspetti soprattutto: la quantità significativa di compagnie under 35 selezionate (più della metà per chiamata diretta, circa un terzo tramite bandi e call, mentre lo scouting purtroppo pesa poco: il 10% per le Residenze nei Territori, appena il 6% per i Centri di Residenza) e il tipo di attività svolta. Parliamo di un atelier o di un’occasione di prova? Siamo dinnanzi a un’enclave sciolta da vincoli e finalità produttive o a un’officina in cui mettere a punto la macchina?
Fitzcarraldo svela che in residenza si lavora soprattutto in vista dello spettacolo (56% nei territori, 66% nei Centri), mentre i percorsi puramente pedagogici o di pensiero sono un atto di minoranza. A Napoli, durante un incontro dedicato alla drammaturgia organizzato da Theatron 2.0 ricordo Paschitto dire «sono stato felice quando ho avuto dal Nazionale di Napoli un adeguato numero di giorni di prova retribuiti, uno spazio professionalmente attrezzato, tecnici a mia disposizione e la prospettiva – dopo aver debuttatodi abitare il palco con una settimana di repliche». Le conseguenze in concreto del Premio Leo de Berardinis: la produzione sostenuta, le prove in sede, la programmazione al Ridotto del Mercadante.
E, tradotto: il tempo, uno spazio e la possibilità reiterata d’incontrare il pubblico, sera dopo sera. Che, da sempre, sono i fondamenti irrinunciabili di quest’arte, come ci insegnano i maestri di cui abbiamo letto i libri, che citiamo nei convegni, dalle cui parole dipendiamo ancora: Brook che comprende dopo mesi che La tempesta necessita di uno spazio vuoto, Strehler che impiega settimane per intuire che il giardino dei ciliegi potrebbe essere un telo bianco issato sulla platea, Stanislavskij che, udendo un attore grattare una panca di legno con le unghie («Era simile al rosicchiare di un topo», scrive nei diari) capisce di cosa parla davvero Tre sorelle e afferra il senso della scena che stanno provando: «non è l’angoscia il tema dominante ma la ricerca dell’allegria, del riso, della felicità». Maša, Ol’ga, Irina «vogliono vivere, non vegetare». Ma anche Emma Dante, per dire dei vivi, che se sta per un anno assieme ai suoi attori per far nascere mPalermu, i mesi che Alessandro Serra pretende e ottiene per il Macbettu, la dilatazione del processo produttivo di cui necessita ogni volta Mimmo Borrelli.
Esempi, buoni per sottolineare la funzione compensativa che le residenze (per quanto possono, quando sono organizzate bene) svolgono rispetto a un sistema teatrale influenzato sempre più, anch’esso, dai ritmi e dai dettami dal mercato: riempimento produttivo degli scaffali e delle vetrine, riduzione dei tempi realizzativi del prodotto, passaggio immediato dall’uso allo smaltimento.

Rifletto, assentandomi, ma la voce di Paschitto («Riproviamo») mi spezza i pensieri costringendomi a riguardare il palco. Il modo di togliersi o mettersi un paio di occhiali. Come stare in proscenio. Le mani in tasca o lungo il corpo. Luce calda o luce fredda? Il ritmo con cui dico il monologo. Le pause che mi prendo. La partitura di danza fatta all’unisono (e le sue variazioni possibili). Come aspiro da una sigaretta elettronica, come la stringo nella mano, come la infilo nella tasca destra. «La parabola semicircolare che devi fare passando dietro al tavolo.» Un inchino, come se sul fondo ci fosse un ostensorio. La posizione sul palco quando dico «Gloria a Dio». La sostituzione delle parole «hanno tenuto banco» con «hanno tenuto insieme» («è meno generica, dà più l’idea»). La durata di un’interrelazione con il pubblico («fino allo sfinimento»), la richiesta di soppressione di certe battute («perché meno battute si dicono, meglio si dicono»). La maniera in cui un attore finge o sibila davvero qualcosa a un attore nell’orecchio. Il modo in cui taglio il palco (si cerca il rigore e la simmetria del rito). L’altezza a cui tengo l’indice della destra rivolgendomi alla platea.
È l’ultimo pensiero che ho annotato sul quaderno, prima di andare. Ha a che fare con i dettagli. Era forse Brook che diceva che il segreto è nei dettagli, che è nel dettaglio che si cela la vera qualità di un’opera. Limare o levigare la propria forma, farsi intarsio insieme agli altri, diventare un congegno (umano), trovare un respiro comune. E prendersi cura di quest’opera – di cui volutamente qui non ho voluto dire nulla (ciò che ho visto va preservato, essendo ancora fragilissimo) – con la stessa cura maniacale con cui un orafo incide una data all’interno di un anello, per usare un’immagine adoperata da Louis Jouvet. Quanto anche questo sia contro-sistemico, e quanto sia essenziale e decisivo penso, salendo infine sull’autobus che mi porta via da Badolato.

(* Giornalista e critico teatrale, Alessandro Toppi scrive per La Falena, le pagine napoletane de La Repubblica e Hystrio)
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