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Luciano Melchionna: «Il teatro bisogna farlo “fino in fondo”»

Luciano Melchionna

Teatro

Luciano Melchionna: «Il teatro bisogna farlo “fino in fondo”»

Da “Dignità autonome di prostituzione” a “Miseria e nobiltà”, passando per la Lia di Daniele Russo, l’affetto per Tommaso Le Pera e l’importanza di un teatro che vada al cuore dello spettatore. L’intervista al regista

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CROTONE – Lo hanno scelto come padrino di battesimo della “Palestra dell’anima”, la serie di workshop aperta a tutti, non solo agli aspiranti attori, i Guitti senza carrozzone capitanati da Vincenzo Leto. E hanno centrato il colpo: Luciano Melchionna è arrivato così, per la prima volta in Calabria, per svolgere una attività formativa che va ben oltre la “semplice” recitazione, cosa che del resto è un suo tratto distintivo. Non potevamo non cogliere l’occasione per fare quattro chiacchiere con lui, come sempre accompagnato dalla sua cagnolina Frida.

Il regista e autore di Latina è il “papà” del celebre “Dignità autonome di prostituzione”, un’opera che è un format che ha scardinato ogni regola della messinscena, restituendo al suo pubblico un teatro in qualche modo di piazza, nel senso che ha abbandonato il palcoscenico per scendere tra la gente, donandosi liberamente – ma dietro compenso fittizio -, rendendo gli spettatori parte attiva. Il tutto senza perdere di vista la qualità della proposta, fatta di una minuziosa scrittura e di una regia, manco a dirlo, visionaria.

Se ancora oggi Dignità incassa sold out su sold out ad oltre 15 anni dal suo debutto, un motivo ci sarà: «Sono sedici anni compiuti – precisa Luciano Melchionna -, siamo appena entrati nel diciassettesimo, ma ti rendi conto?». Dignità è costituito da «mono-luoghi, per lettori, attori e spettatori attivi – spiega il regista -. Io scrivo dei monologhi che nascono con una urgenza loro, li cesello e poi dò agli attori, ai lettori e agli spettatori la possibilità di dargli vita».

Luciano Melchionna è arrivato a Crotone insieme a Leto, subito dopo l’Airolandia Teatro Festival, ad Airola (Bn): «È nato tutto da una situazione simile a questa con i Guitti senza carrozzone: l’associazione Airolandia mi chiamò per un workshop – racconta -, rimasero molto colpiti e mi chiesero una direzione artistica. Accettai con l’idea di creare un percorso per crescere, perché in quel paese, così come in  questo, sento una umanità che ci sta sfuggendo di mano altrove, e quindi va premiata, stimolata. Ho deciso di portare una mia novità assoluta, scritta appositamente, che si chiama “Valzer degli addii” – tra gli interpreti c’è anche il crotonese Leto, ndr -, che commuove tutti. Un migliaio di persone l’hanno visto e si sono tutte commosse: è una cosa che ti fa capire quanto bisogno abbiamo di emozionarci».

Il progetto si sviluppava in tre differenti cortili, quello del Valzer degli addii, prima di tutto e poi «un secondo per il quale ho chiamato un artista fiorentino, Alessandro Riccio, che è una maschera, la “Bruna”, e ha portato un pezzo che si intitola “La Bruna in viaggio”; nel terzo cortile c’erano Cinzia Cordella e Gabriele Guerra con un testo contemporaneo che va a toccare l’esoterico, della stessa Cordella. Li ho voluti inserire perché erano come legati tra loro e formavano una sorta di carillion: li caricavi, trenta minuti contemporaneamente, e poi il pubblico si spostava di cortile in cortile, per ruotare e ricominciare. Ogni cortile si accendeva per ben tre volte, e tutti hanno potuto vedere tutto».

Cosa che non succede con Dignità: «Lì mi diverto a cambiare anche durante le repliche – ammette compiaciuto Luciano Melchionna -, non si riesce mai a vedere ogni cosa. Quest’anno c’è stata una ragazza che è venuta  per venti volte su ventidue repliche e non è riuscita a vedere comunque tutto perché ho cambiato gli attori e le performance. Nel Paese incantato la dinamica non è il vado a vedere cosa voglio: è gestito, ci sono tre atti unici con un finale, un concerto incantato, che è un palco spaccato, con ogni musicista in un angolo diverso della piazza, e i cantanti che compaiono in giro, invece che essere concentrati».

E tutto questo è piaciuto molto al pubblico.

«Sì, succede, se lavori con un aderire profondo, sincero alla materia, con una onestà intellettuale e morale, se non lavori per un mero successo ma per dire qualcosa senza la presunzione di metterti in cattedra e se lavori non per rapire il pubblico. Dicono che sono troppo sincero nelle interviste, ma voglio dirlo: non mi piace l’idea di una costrizione nella poltrona, per questo non vado moltissimo a teatro, perché non sopporto di essere obbligato a sentire dei tromboni per due ore, la trovo una violenza. Nel mio ruolo è ancora più faticoso:  sono stufo di andare a vedere gli spettacoli degli amici solo perché amici, vado a vederli quando sento di volerli vedere, non perché mi sento in obbligo per andare a fare pubblico, perché? Perché dovremmo tornare alla meritocrazia in tutti i sensi».

«Nomi famosi? Nel teatro ce ne sono 7-8 riconoscibili – prosegue Luciano Melchionna -. Mettiamo 10 magari, però gli altri? E allora sembra un mercato: dobbiamo metterne qualcuno in più, questo non è abbastanza famoso, e così via – argomenta – . Io preferisco portare degli attori strepitosi come Vincenzo Leto che ha un talento pazzesco, che sta lavorando per crescere , ma già ha un’energia, una potenza, una attitudine, un mondo interiore da lanciare fuori che se li mangia, in parecchi. E anche su quello faccio fatica: cerco l’attore famoso ma che abbia talento, che se lo meriti e che mi scelga, non sono solo io a dover scegliere loro».

Torniamo a “Dignità autonome di prostituzione”. Cos’è per Luciano Melchionna?

«È come un bambino, è un figlio fatto di molecole di artisti, di collaboratori e di produzioni che sostengono il lavoro ora, ma è iniziato con niente: per i primi 6/7 anni sono andato avanti da solo, senza alcuna sovvenzione. È per questo che realtà come  i Guitti senza carrozzone vanno aiutate, perché possono portare veramente delle novità e migliorare questo sistema. Dignità è migliorato tanto, lo dico con orgoglio, ma senza spocchia. Sono felicissimo, perché lo scambio con la gente è vero».

Melchionna ad ogni replica accoglie il pubblico all’ingresso, ma anche saluta uno per uno gli spettatori alla fine.

«Ma sai che non riesco più a usare la mano, per il troppo stringere e salutare? Un tempo poi ero proprio all’inizio – della rampa che conduce all’interno di Castel Sant’Elmo a Napoli, dove ha luogo Dignità da qualche tempo a questa parte, ndr -, ma adesso non me la sento ogni sera di fare tutto il percorso. Quindi rimango là, ma saluto tutti».

Gli accenniamo di  Tommaso Le Pera, un nome che è sinonimo di fotografia teatrale in Italia, orgoglio calabrese, che in più occasioni non ha nascosto il suo entusiasmo per Dignità, e a sentire il suo nome Melchionna si illumina: «Qui tocchiamo un pezzone gigantesco del mio cuore. Se c’è una cosa che voglio appendere come manifesto è la stima e l’amore di Tommaso. Lo conobbi in Accademia: era il fotografo ufficiale della Silvio D’Amico».

«A ogni saggio o spettacolo di fine corso, arrivava quest’uomo meraviglioso che non ha mai smesso di seguirmi. Lui c’è sempre a testimoniare quello che faccio. Buona parte della pubblicità di Dignità autonome di prostituzione è Tommaso Le Pera, un uomo straordinario che continua a gioire come un bambino di fronte agli spettacoli, è una dote unica. Non è mai stanco, lui lo fa ancora con entusiasmo e quando non gioisce te lo fa capire. Lo chiamo appena finiamo questa chiacchierata, voglio sentirlo».

Ci sono tantissimi personaggi, in “Dignità”. Ma uno ha uno ruolo davvero unico. Parliamo di Lia, la direttrice del bordello. Luciano Melchionna scoppia a ridere: «È un personaggio nato prima di Dignità autonome di prostituzione, mutuato da una mia commedia del 2000, “Pausa”. Racconta di una famiglia un po’ scombinata che attende in un non-luogo, e si azzanna in questa attesa e dichiara sentimenti che non ha mai dichiarato, perché qualcosa li sta smuovendo. A un certo punto si capisce che questo qualcosa è il padre che è in coma, ma si capisce anche che è l’autore: sono personaggi davvero in difficoltà, perché in cerca del loro padre».

«Lia è il figlio maggiore – spiega – che non trova un ruolo in questa società e allora si traveste per aderire ad un ruolo molto ambito e richiesto, e si dice: se loro sanno cosa vogliono quando io sono così, forse lo capisco anche io. E’ una provocazione. Nell’evoluzione è un operario, un muratore, che deve arrotondare, perché ci ho messo dentro anche una denuncia sociale: ancora oggi, incredibile ma vero, lavori ma non basta per mandare avanti una famiglia. Togliamo il supporto e gli aiuti, per carità, cadiamo sempre di più nell’abbandono da parte dello Stato – ironizza -. È una cosa che mi fa rabbia, e non si cercano soluzioni. Dividi et impera, no?».

E su Daniele Russo, la formidabile Lia delle ultime edizioni, Luciano Melchionna dice: «L’ho conosciuto diversi anni fa con “Persone naturali e strafottenti” di Patroni Griffi. Andò molto bene, fu un successo. E da lì è partito un percorso con lui, l’ho voluto in Dignità come direttrice, anche perché lui è direttore, e perché quel ruolo deve essere interpretato da un maschio, inteso nel senso più comune. Lui è seduttivo da morire, delle volte esagera un po’ e lo sgrido, perché si spinge oltre e per me l’eleganza del mio bordello è fondamentale. Ma quella sua virilità così potente all’interno di quella denuncia e di quella maschera, a lui ha fatto benissimo, perché ha tirato fuori una parte di lui come attore, come uomo, che secondo me è fondamentale nel suo percorso, e a Dignità anche fa benissimo, perché c’è questo uomo carismatico, travestito, che però dice delle cose molto importanti».

Che in mezzo alle risate arrivano, eccome.

«È un po’ una mia caratteristica. A me piace fare abbassare le difese del pubblico, spostare il discorso, mantenendo un’inquietudine che ti agganci, e quell’inquietudine poi dà il colpo nel momento in cui deve arrivare, e trova cuori aperti, e arriva fino in fondo. È il mio urlo di battaglia, lo sanno tutti: “fino in fondo” e basta girarci intorno, basta essere approssimativi. Questo è osare, non fare sesso in scena o inserire nudi, quello secondo me non è più osare».

Un’ultima battuta sullo straordinario “Miseria e nobiltà” che il grande pubblico ha potuto vedere su RaiDue e oggi è disponibile su Raiplay.

«È il punto di arrivo per una nuova partenza nella mia carriera – spiega Luciano Melchionna -. Perché mi è stato proposto sull’onda del successo di “Parenti serpenti” che è durato sei anni di tournée, ma ho preferito la versione di De Filippo a quella cinematografica: mi sono subito reso conto che volevo fare qualcosa di diverso. Mi sono letteralmente chiuso e l’ho ritradotto a modo mio, cercando di entrarci e all’improvviso ho capito. Se dovessi dare un consiglio ai giovani registi è questo: tuffatevi dentro il testo, nella parola, perché piano piano lo spettacolo emerge. Miseria e nobiltà è stato così, certo se non ci fosse stato Roberto Crea – lo scenografo, ndr – non sarebbe stato quello che è, ma se non ho la visione complessiva, non riesco a costruire la regia».

«Mentre scrivevo – aggiunge Luciano Melchionna – ho visto il sotto e il sopra: le fondamenta della società sono nella miseria, quindi una discarica, un luogo da teatro russo quasi completamente desolato, e poi con un colpo di magia, per un omaggio a Eduardo Scarpetta che diceva che se esistono i miracoli possono avvenire solo in teatro, viene soffiata via tutta questa desolazione, che viene risucchiata dalle porte del palazzo nobile che si appoggia, appunto sulla miseria. Volevo far capire che tutto quel mondo, se togli quel cassetto che è la miseria, crolla. E sono tutti travestiti e non esiste nessuna nobiltà che non sia quella dell’animo. La miseria è miseria, è fame di tutto».

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