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Tra banane e frittate, viva il duo Maragoni e Fettarappa

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Tra banane e frittate, viva il duo Maragoni e Fettarappa

All’auditorium di Polistena La Corte Ospitale in scena con “Solo quando lavoro sono felice” di e con Maragoni e Fettarappa

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Scorrettissimo, ma anche no. Capitalista, eppure alla fine mica tanto. Comunista? Forse. È tutto e il contrario di tutto un po’ come la realtà con i suoi paradossi, “Solo quando lavoro sono felice”, lo spettacolo di Lorenzo Maragoni e Niccolò Fettarappa prodotto da La Corte ospitale, andato in scena all’auditorium di Polistena nell’ambito della stagione di Dracma. Forte di una scrittura fresca, molto giovane, che strizza un occhio agli slogan e alle frasi fatte che vanno per la maggiore, Solo quando lavoro è un occhio critico – anche un po’ di più -, sulla contemporanea concezione del lavoro, con il leit motiv dell’occupazione che ha preso il sopravvento su «quel grande frigo degli avanzi» che è la vita.

Maragoni e Fettarappa si presentano in scena per analizzare, insieme ai presenti – tanti -, statistiche alla mano, l’approccio al mondo del lavoro, in Italia – nello specifico a Polistena -, ma anche in America, dove dall’inizio della pandemia ci sono state dimissioni a milioni. E lo fanno strappando risate a raffica: mentre ironizzano sulle notizie riportate da Internazionale e sparano un poco contro tutti, senza differenze di colori, tracciando una disamina spietata anche di quella che è la società contemporanea.

Dobbiamo essere felici, realizzati, solo per il fatto di portare a casa un – misero – stipendio, ma lo siamo per davvero? «Io non lo sono tanto», accenna con un fare sempre un po’ sbilenco e incerto Fettarappa. A lui tocca la parte più titubante, in questo strano duo di attori: a Maragoni spetta quella più “saggia”, che vorrebbe far riflettere. Spiega ad esempio, Maragoni, come la società si divida in grattacieli e frittate: i primi sono quelle persone che hanno sempre saputo cosa volevano dalla vita e hanno lavorato con quell’obbiettivo, puntando verso l’alto, costruendo un piano dopo l’altro; i secondi sono quelli che si estendono in maniera, per così dire, orizzontale. Facile intuire le caratteristiche – più “umane”? – delle frittate: il loro profilo è un po’ quello di tutti, che Maragoni traccia in maniera dura, per quanto ridicola. Frittate sono coloro che non sapendo bene cosa studiare all’università hanno cambiato più volte facoltà – magari puntando alle lauree meno “spendibili sul mercato”, come si dice generalmente -, o ancora non hanno neanche completato gli studi perché nel frattempo hanno iniziato a fare piccoli lavori per arrotondare, che però poi sono diventati stabili (si fa per dire). «Le frittate sono di solito quelle persone che frequentano i teatri, e se stasera siete qua…», conclude strappando un applauso.

Al “disadattato” Fettarappa spetta poi sciorinare un altro paradosso dell’impiego: quello che ci vuole “capo di noi stessi”. Fettarappa assume Fettarappa che ha una sorta di timore reverenziale nei confronti di Fettarappa, anche se in realtà si malvedono a vicenda: in uno sviluppo talmente surreale, anche il rassegnare le dimissioni diventa un momento altamente grottesco. Incoraggiato da Maragoni – che lo aiuta pure a individuare tra il pubblico un possibile capo, il malcapitato Luigi, sui cui scatenare la sua rabbia, essendo così difficile farlo contro se stesso, il più giovane dei due attori si lancia in uno sfogo di cui gli spettatori percepiscono solo il fracasso, avvenendo fuori scena, dietro le quinte. Eppure funziona: la forza dello spettacolo infatti è salda su alcuni punti teatralmente molto convincenti. Testo divertente e azzeccato a parte, i due attori si presentano sulla scena con una modalità quasi della stand-up comedy, lasciando un interessantissimo margine di dialogo e interazione col pubblico, pertanto tutto può accadere – bravi, l’hanno gestita benissimo -; poi l’uso, a più riprese, del fuori scena che funziona perfettamente. Infine la presa in giro della stessa messa in scena: Fettarappa nel raccontare la storia di King Kong – a suo comico dire, metafora del mondo del lavoro -, porta sul palco una banana. «Adesso vi mostrerò un atto performativo straordinario», dice prima di mangiarla. Così anche lo slogan “No allo stipendio, sì alla banana”, ha tutto un altro sapore.

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