Classica
“Il Viaggio a Reims”, sul podio a Pesaro ci sarà Andrea Foti
Classe 1996, il calabrese Andrea Foti dirigerà la Filarmonica Gioachino Rossini ne “Il Viaggio a Reims” in programma il prossimo agosto a Pesaro, nel cartellone della rassegna Rossini Opera Festival, la più importante dedicata al compositore marchigiano. La regia di Emilio Sagi è ripresa da Matteo Anselmi.
Cosa significa per un giovane direttore occuparsi di un’opera simile, che dura così tanto e ha così tanti solisti?
«Diciamo che occuparsi in generale dell’opera è sempre una cosa complessa, molto di più rispetto a qualsiasi altra preparazione che sia sinfonica, cameristica o di altro genere. Questo perché ovviamente entrano in gioco molti più elementi che sono sia musicali che extra musicali come ad esempio drammaturgici e filologici. Quest’opera da parte sua ha alcune complicanze che non sono tanto in merito alla durata, perché sì è un’opera lunga che richiede anche una preparazione fisica per reggere tre ore di performance, ma in merito a una vera e propria scrittura vocale: Rossini utilizza un’imponente massa vocale, sono ben 18 i personaggi, con caratteristiche totalmente differenti e ad ognuno dà uno spazio importante e questo basta per farci capire che è un’opera molto impegnativa».
Quanto in allestimenti come questo conta il confronto con il regista?
«Diciamo che in generale, quando si tratta di un’opera messa in scena, non in forma concerto, la collaborazione con il regista deve essere fondamentale. I grandi registi, ad esempio Strehler, si preoccupavano e si preoccupano anche dell’aspetto musicale. Oggi è più frequente nelle messe in scena che la regia non tenga conto degli aspetti prettamente musicali dell’opera: questo comporta che i cantanti spesso si ritrovano costretti a movimenti scenici che non sono in accordo con la frase che stanno dicendo o con le necessità vocali, non c’è coerenza tra il gesto scenico e il gesto musicale, se possiamo definirlo così. Per quanto mi riguarda è per me fondamentale assistere alle regie e capire esattamente i movimenti ed eventualmente concordare e condividere le idee con il regista al fine di rendere il tutto più omogeneo e armonico possibile. Perché alla fine di quello si tratta, non è un prevalere sul regista: è un lavoro fianco a fianco».
Il Rof riportò alla luce quest’opera nel 1984, per rappresentarla per la prima volta dal debutto. Sa raccontarci qualcosa di questa operazione?
«Il Rossini Opera Festival ha iniziato questo recupero grazie soprattutto a una figura come Alberto Zedda, che coinvolse diverse figure della musica internazionale tra cui Philip Gossett, e anche altri grandi nomi della musicologia, lavorando sulle edizioni critiche. Va detto che non esiste “una” edizione critica, non esiste una verità assoluta, esiste però un’edizione realizzata successivamente all’originale che cerca di tenere conto di tutti quegli elementi caratteristici e propri di quell’opera. Dall’archivio dell’Accademia di San Cecilia venne fuori questo manoscritto con la maggior parte dei pezzi del Viaggio a Reims, perché alcuni furono ripresi da Rossini per “Le Compte Ory”. Tramite il confronto dei pezzi per quest’opera francese, di questi manoscritti e di altre fonti, il Rof, nello specifico la Fondazione Rossini, riuscì a mettere in piedi quest’opera».
Perché non fu più portata in scena?
«Non ebbe molta fortuna: era pensata per un avvenimento, era un’opera potremmo definirla brutalmente usa e getta, di certo non una di quelle opere pensate per essere replicate. Lo scopo del Rof, grazie alla Fondazione Rossini è non solo di creare un festival celebrativo della musica di Rossini, ma anche di riportare ala luce le opere meno conosciute cercando, attraverso l’edizione critica, di restituire al pubblico la versione più fedele possibile non solo della musica, ma anche del libretto. La versione di Abbado del 1984, è il coronamento non solo di un lavoro artistico eccezionale, ma di un lavoro di ricerca musicologica che ha portato a questa edizione critica che è quella sulla quale oggi posso e ho la fortuna di studiare».
Nel 1984, come dicevamo, Il Viaggio a Reims va in scena a Pesaro con la direzione di Claudio Abbado, regista è Luca Ronconi, le scene sono di Gae Aulenti. Anche il cast è stellare. Cosa ha rappresentato quella versione e come vive l’idea di confrontarsi con un simile precedente?
«Va detto prima di tutto che quella produzione è stata in qualche modo una resurrezione: “Il viaggio a Reims” è un’opera che è stata riscoperta con un lavoro eccezionale da parte della Fondazione Rossini e messa in scena da uno dei più grandi direttori d’orchestra che il mondo abbia mai visto, con un cast meraviglioso, una messa in scena straordinaria. Tutto questo ha portato a un risultato di portata enorme. Oggi Il viaggio a Reims viene eseguito in tutto il mondo, ciò vuol dire che questo tipo di lavoro da parte del Rof deve veramente essere di riferimento, da sprone per tantissimi festival che magari si impegnano soltanto a eseguire ciò che già si conosce, senza rischiare di portare un’opera di fatto sconosciuta al pubblico, come lo era nel 1984 Il Viaggio a Reims. Se tutti prendessero un po’ di questo spirito nei festival dedicati anche ad altri grandi compositori, o a compositori meno conosciuti, sarebbe un bellissimo modo per rinnovare quello che è il grande repertorio di tradizione. Per quanto riguarda l’approccio personale, io vivo quel momento, quella esecuzione come un grande riferimento. Devo dire la verità, nella mia preparazione, non ho voluto ascoltare quell’esecuzione per non esserne influenzato, come faccio sempre, soprattutto se il riferimento è così grande come in questo caso. Il mio approccio è sicuramente di grande gratitudine verso questa esecuzione straordinaria, questa meraviglia assoluta. Quello che spero da parte mia è che ne esca una lettura sempre nuova, rinnovata, che possa magari incentrare l’attenzione su alcuni aspetti differenti, questo sì».
Parliamo dei numerosi solisti e dei brani più significativi come il gran pezzo concertato “A tal colpo inaspettato”, a 14 voci. Qual è l’aspetto più difficile nel preparare un simile brano?
«È sicuramente tra i pezzi più importanti e più ampi almeno per quanto riguarda il numero. È un numero molto lungo suddiviso in diverse sezioni come la tradizione vuole. Sono molto complessi in modo diverso. Il concertato a 14 voci è uno dei pezzi più imponenti a livello di organico non solo strumentale, ma ancora di più vocale mai pensato nell’opera rossiniana: nella sua parte iniziale queste quattordici voci si intrecciano in un contrappunto fittissimo, molto complesso. La voce come accade spessissimo con Rossini, diventa strumento musicale: in alcuni momenti sembra di ascoltare dei violoncelli, dei fiati. Se al posto delle parole mettessimo un suono emesso solo con una vocale, ecco il paragone sarebbe ancora più vicino. Quando si hanno 14 voci che si muovono in modo differente, da parte del direttore ci devono essere l’attenzione e la capacità di mantenere l’insieme perché 14 voci non sono poche e spesso cantano contemporaneamente, e quindi non è facile garantire un’uscita delle parti in modo uniforme, senza che nessuna prevalga sull’altra. Dopo questa, le parti successive sono molto rapide e difficili: il finale del concertato è un gran pezzo di agilità e di espressività canora».
Cosa ci dice allora del sestetto “Sì, di matti una gran gabbia”?
«È un pezzo straordinario: se nel concertato l’orchestra deve essere supporto, in questo sestetto è commento. C’è una prima parte di presentazione, dove vediamo sfilare altri personaggi cardini di quest’opera. Anche lì in modo geniale, non è mai uguale: c’è sempre una variazione o un qualcosa che caratterizza il personaggio. In questo Rossini è unico perché queste caratterizzazioni che lui fa nascono da un gesto molto naturale, poco ragionato, con una naturalezza come quella che troviamo in Mozart. Lo vediamo per esempio in un altro brano l’“Aria di Don Profondo”, è un altro pezzo in cui questo sillabato che viene disciolto in quest’aria è importante. Lì l’orchestra accompagna, commenta, e Rossini fa una cosa geniale: tutti i personaggi che vengono citati da Don Profondo verranno associati a un impianto armonico tonale differente. Troveremo Don Profondo in una tonalità in mi bemolle maggiore, poi lo spagnolo in do minore, poi fa minore, etc. Vengono davvero toccate molte tonalità, ognuna di queste rappresenta un personaggio».
Indubbio il lavoro complesso per il direttore, per l’orchestra, cosa significa per i cantanti essere nel cast de Il Viaggio a Reims?
«L’alta preparazione dei cantanti è una cosa che va sottolineata. A questo punto, cito il maestro Ernesto Palacio – sovrintendente del Rof, ndr – che disse in una intervista che i cantanti che cantano quest’opera può ritenersi in grado di cantare praticamente tutto perché è difficile, molto complessa vocalmente parlando, richiede un controllo, una sicurezza, ma allo stesso tempo una consapevolezza fisico-scenica, teatrale».
Come dovrebbe essere lo spettatore ideale, di questa e dell’opera lirica in generale?
«Parlare di spettatore ideale è un po’ un’utopia. In generale per l’opera, e vale pure per la musica sinfonica, quello che spesso manca è un’educazione di base a questo tipo di musica. Parto dal presupposto che la musica nel nostro Paese è scarsamente insegnata, e nella formazione generale di ogni individuo la musica dovrebbe sicuramente ricoprire uno spazio maggiore, in un Paese che alla musica ha dato e continua a dare tanto, ma di questo dimentichiamo perché oggi è solo puro intrattenimento. Ci sono paesi che ci insegnano ancora oggi fortunatamente che la musica non è intrattenimento ma come l’arte in generale deve diventare un punto di discorso, di riflessione, ci permette di ragionare su cose diverse con modalità differenti perché la musica strumentale è diversa da quella vocale, però entrambe hanno questa capacità di smuovere le parti più profonde e recondite dell’animo umano. Insegnando, ciò che ho sempre detto ai genitori dei miei allievi è che avere a che fare con l’arte è qualcosa che ci insegna a vivere, non serve a intrattenere, a far passare del tempo. Quella è la più piccola conseguenza, ma ci sono conseguenze molto più profonde che oggi si sono un po’ dimenticate e che credo dovremmo tornare a valutare, e cercare di fare nostre».
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